Inter, Mancini e l'Europa indigesta
Riportiamo il punto di vista del noto giornalista Mediaset Paolo Ziliani sul suo sito personale.
Ricordate quando Sacchi, ai tempi del Milan, fece una proposta: creare una squadra per il campionato e una per la Champions League per poter combattere al meglio in entrambe le competizioni? Ebbene, per l'Inter che così malamente ha cominciato la sua stagione europea - dopo avere malissimamente concluso le due precedenti con le avvilenti eliminazioni di Villareal e Valencia - la proposta potrebbe essere: un allenatore per il campionato e un allenatore per la Champions.
Con Mancini riconfermato per la panchina "italiana" e una new-entry, a scelta di Moratti, per la panchina "internazionale".
Diciamolo: se è vero che un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi ma tre indizi sono una prova, l'orrido debutto dell'Inter in terra di Turchia non fa che confermare quello che da tempo andiamo pensando: e cioè che Mancini sia un allenatore del tutto incapace di dare all'Inter quella mentalità e quella statura internazionale che il Milan, tanto per fare un esempio, ha saputo sviluppare al massimo grado in totale sintonia con i propri allenatori (non ultimo Ancelotti). Il motivo? Il motivo è Mancini. E cioè chi è Mancini oggi: e chi è stato Mancini ieri.
Mancini, lo ricorderete, è stato un giocatore di classe immensa che guarda caso ha speso tutta la sua carriera in un microcosmo molto micro e poco cosmo: reuccio a Bologna nei suoi anni giovanili, imperatore a Genova (sponda Sampdoria) nei suoi anni maturi. Persino la breve e fugace parentesi inglese (Leicester City) fu un'esperienza di piccolo cabotaggio. Per capirci: pur avendo numeri, e classe, paragonabili a quelli di Roberto Baggio - uno che ha vestito le maglie di Juve, Milan e Inter e che ha giocato, da straordinario protagonista, 3 campionati del mondo vincendo un Pallone d'Oro e diventando uno dei calciatori più famosi al mondo -, Mancini non se l'è mai sentita di allontanarsi dalla sua "piccola" Genova: e addirittura, sentendosi incompreso in maglia azzurra, chiese ed ottenne di non essere più disturbato, e convocato - avvenne ai tempi di Sacchi c.t. -, perché la sua soglia di accettazione delle difficoltà della vita, una volta messo il naso fuori dall'uscio di casa, era praticamente zero.
Sono i fatti che parlano. E non c'è dubbio che Mancini sia stato - da giocatore - un formidabile "campione provinciale", per certi versi inarrivabile, ma in grado di esprimersi al meglio solo nel suo orticello, quello dietro casa. La scelta di restare tutta la vita a Genova - un po' come fecero Gigi Riva a Cagliari e Antognoni a Firenze - è stata ammirevole, certo, ma anche di comodo: in verità, Mancini non ce l'ha mai fatta a staccarsi dalla sua "coperta di Linus", ad allontanarsi dal suo piccolo mondo adorante che per 20 anni gli ha girato attorno. Sentirsi un reuccio in Liguria gli bastava: e le Coppe dei Campioni, i Campionati del Mondo e i Palloni d'Oro erano mondi lontani, roba da extraterrestri. Esperienze che richiedevano una maturità che Roberto non ha mai dimostrato di avere: esperienze che in un certo senso lo atterrivano.
Ebbene: siccome l'uomo, nella vita, può cambiare tante cose, affetti, casa e lavoro, ma non la testa - a meno di non compiere su se stessi un lavoro che Roberto non ha mai voluto compiere -, Mancini ha appeso le scarpe al chiodo ed è diventato allenatore rimanendo, dentro di sé, sempre lo stesso. Lo stesso uomo-bambino bisognoso di circondarsi di poche persone amiche, lo stesso uomo-bambino desideroso di delineare il proprio ambito lavorativo al ribasso, sotto-dimensionandolo - il cortile di casa in questo senso è perfetto -, lo stesso uomo-bambino incapace di mettere a fuoco gli obiettivi professionali in modo adulto e adeguato. Così, ed è storia di ieri, capita che Mancini - primo in classifica con 15 punti di vantaggio sulla Roma - giochi a Livorno un'inutile gara di campionato tre giorni prima della decisiva sfida del Mestalla col Valencia, e capita di vedere Ibrahimovic e Stankovic giocare la partita della vita per rimontare e battere il Livorno 2-1: salvo poi, tre giorni dopo, vedere in campo a Valencia un Ibrahimovic spompato e uno Stankovic letteralmente incapace di reggersi in piedi: un'Inter malridotta e mal guidata che come a Villareal, un anno prima, si fa miseramente sbattere fuori. Negli ottavi. Senza un sussulto di dignità.
Ma Mancini è così. Mette il muso a Vieira perché torna malconcio dalla nazionale, ma visto che stiamo parlando di campioni la domanda è: perché Vieira dovrebbe rinunciare a giocare Italia-Francia o Francia-Scozia? Per essere in campo in Inter-Catania? Se a Mancini disturba tanto l'attività delle nazionali, perché non è andato ad allenare il Lecce? E ripensando alla stucchevole polemica col Milan su chi aveva vinto la cosa più importante (scudetto-Inter, Champions-Milan): premesso che al Bar Sport, con un bicchiere di rosso in mano, qualsiasi tesi è sostenibile, qual è l'addetto ai lavori che oggi, nell'anno di grazia 2007, può seriamente sostenere che è meglio vincere lo scudetto della Champions? Sarebbe come sostenere che per un cantante il massimo è vincere il Festival di Castrocaro: e comunque, fossimo un presidente, noi un allenatore del genere lo licenzieremmo su due piedi. En passant: secondo Mancini, Moratti avrebbe speso centinaia di milioni e fatto incetta di fuoriclasse in ogni parte del mondo per puntare, ogni anno, a vincere il tricolore? Ed è proprio sicuro, Mancini, che il sogno di Ibrahimovic, Vieira e Javier Zanetti sia raccontare un giorno, ai nipotini, i loro trionfi contro Empoli e Atalanta?
Come diceva quello: così è, se vi pare. Intanto, la Champions League 2007-2008 è cominciata e il Milan ha giocato benissimo, la Roma altrettanto, la Lazio così e così e l'Inter ha fatto pena. È stata un vero disastro: però domenica aveva spezzato le reni al Catania e magari, domenica prossima, al Picchi di Livorno, Mancini potrebbe regalare ai tifosi un'altra gioia...