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Un sogno chiamato Fiorenzuola

Un sogno chiamato Fiorenzuola
lunedì 11 febbraio 2008, 00:002008
di Alessio Calfapietra

Per anni vi abbiamo intrattenuto con gli avvilenti ritratti di personaggi che si sono avvicendati per i campi di calcio italiani senza un vero perché. Questa volta vogliamo esagerare e andare oltre la classica monografia del principe tramutatosi in rospo o dell'oro trasformato in piombo. Con un benevolo strappo alle regole vi offriamo una meteora "confezione famiglia", una squadra intera di giocatori arrivati dal Sudamerica e scomparsi ad una velocità superiore a quella degli stessi corpi celesti in giro per l'universo. E ve ne parliamo interpellando Alessandro Aleotti, presidente del Brera che nell'estate del 2001 tentò di acquistare il Fiorenzuola e di trasferirvi una ventina di atleti dal nuovo continente: "Fu una mia intuizione. All'epoca non vi erano molti professionisti in serie C1 e C2 con il doppio passaporto. Il Fiorenzuola era appena stato ripescato in C2 e non aveva alcun tesserato tra le sue fila, una tabula rasa che si prestava a questa strategia innovativa, e cioè costruire una squadra che a costi inferiori avrebbe potuto rendere più di un'altra composta da soli italiani. Feci arrivare un tecnico di grido, Mario Kempes, che attirò stampa e tv in ritiro praticamente ogni settimana". Ma il progettò non andò avanti, come mai? "Vorrei saperlo anche io - risponde Aleotti - siamo ancora in causa dopo sette anni. Ero il punto di riferimento di una cordata di imprenditori milanesi, avevamo versato caparre e fideiussioni varie ma il presidente Villa iniziò a prendere tempo con una serie di dietrofront e fece saltare tutto opponendosi al giroquote. L'iniziativa naufragò e dovetti rispedire i giocatori in patria con mio grande rammarico e dopo aver versato somme imponenti che aspettiamo ancora di vederci rimborsate". Aleotti considera il calcio uno strumento per intervenire nelle dinamiche sociali, emblematiche a riguardo la fondazione della squadra del carcere di Opera e l'inaugurazione di una formazione juniores per immigrati di tredici diverse etnie, ma il piano Fiorenzuola aveva anche una precisa identità tecnica: "Non era un progetto sociale, perché allora si poteva riempire un vuoto con questa tipologia di calciatori dalla doppia nazionalità italiana e spagnola. In Argentina uno su tre è comunitario, in Uruguay una buona metà, oggi i fatti mi danno ragione e si ricorre ampiamente al doppio passaporto ma nel 2001 era una ventata di novità che purtroppo non ha avuto modo di essere testata sul campo. Qualche anno dopo ho tentato l'esperimento con il Brera, stavamo andando bene ma poi sono venuti meno i finanziamenti e ho dovuto rinunciare". Chiediamo ad Aleotti se conserva il ricordo di qualche calciatore in particolare. "E' passato del tempo ormai, forse qualcuno milita ancora in Interregionale ma credo che molti si siano ritirati.

Peccato davvero, magari non avremmo spaccato il mondo ma sarebbe stato curioso vedere in azione questa squadra formata da elementi di 25-26 anni provenienti dalla serie B argentina. Per un paio di mesi ho creato una penisola sudamericana nel bel mezzo della Pianura Padana". E ne è stato tratto anche un film: "Si intitola Sogni di cuoio, un bel lavoro anche se la vicenda viene un pochino romanzata perché l'operazione aveva una precisa logica e prescindeva, del tutto o quasi, da considerazioni romantiche o da prospettive di integrazione sociale". Ma l'appuntamento con la cinepresa è prossimo a ritornare: "Sky trasmetterà tra poco Il tredicesimo uomo, un lungometraggio con Gianfelice Facchetti che impersona un calciatore del Brera che gioca in serie C1". Ci permettiamo una domanda un po' maligna: secondo lei il calcio è passato da un estremo all'altro, ovvero adesso ci sono troppi stranieri? "Non credo, il calcio rappresenta un fenomeno globale. Quello che invece va storto è che c'è troppo dilettantismo tra i professionisti e, per converso, troppo professionismo tra i dilettanti. Vedo gente improvvisata in serie A che si comporta da venditore di salumi e che sa poco o nulla a livello organizzativo e gestionale, mentre poi in serie D ci sono calciatori che si allenano la sera e fanno un altro lavoro e vengono pagati anche 2000 euro al mese, nella stessa Brianza posso testimoniare di imprenditori che spendono e spandono a fondo perduto. Il mio Brera incarna il sano dilettantismo, siamo retrocessi tre volte ma abbiamo colto la dimensione autentica e genuina del calcio fatto per divertimento. La nostra curva è uno spettacolo sullo stile delle "firm" inglesi, un gruppo di venti ultras che tra canti e birra seguono in allegria le nostre partite". Facciamo presente all'intervistato che la rubrica tratta delle famigerate meteore, Aleotti sorride ma puntualizza: "In questo caso non possiamo parlare di meteore vere e proprie, perché i ragazzi non si sono rivelati né campioni né bidoni, definiamoli astri che hanno soltanto lambito il cielo". Chiediamo ad Aleotti un ultimo pensiero sulla sua creatura mai venuta alla luce: "Potevamo aprire una nuova frontiera calcistica e mettere a punto un modello organizzativo diverso da quello, perennemente a perdere, in voga nella terza serie. Se ci fa caso da allora le squadre fallite ogni anno non si contano più, noi avevamo messo su una discreta rosa spendendo meno delle altre società e chissà dove saremmo andati a finire". Non manca da parte del giornalista e docente universitario una riflessione sul momento attuale: "Il pallone è uno strumento per creare simbologie molto forti, quello di adesso mi sembra degradato e il degrado aumenta man mano che si sale di categoria". Forza Brera, per concludere: "Sì, siamo la terza squadra di Milano, giochiamo nella mitica Arena, l'obiettivo è raggiungere i play-offs e salire in Eccellenza".